L’AMORE E’ UNA QUESTIONE POLITICA. Intervista a Federico Zappino


IMG-20160124-WA0000

Piazza della Scala 23 gennaio 2016 #svegliaitalia

 Nel luglio dello scorso anno la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto all’Italia di adottare una disciplina legislativa sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Era chiaro che ormai la riforma non fosse più rinviabile. Per questo motivo, il 6 ottobre 2015, la senatrice PD Monica Cirinnà ha presentato il DDL che verrà discusso il prossimo giovedì 28 gennaio in parlamento, insieme a 6000 proposte di modifica. Articolato in due capi, il primo di essi regola appunto l’unione civile omosessuale come “specifica formazione sociale”, mentre il secondo disciplina le convivenze di fatto, anche eterosessuali. Nel frattempo, numerose associazioni LGBT (Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno, Mit) hanno invitato i cittadini a scendere in piazza sabato 23 per una mobilitazione all’insegna dell’uguaglianza. Ad opporsi allo #SvegliatItalia ci sono i soliti sospetti: i sostenitori del Family Day (indetto per il 30 gennaio), il Vaticano con monsignor Nunzio Galantino, il Pirellone, and more to come.
Eppure, nel caos di opinioni, giudizi e pregiudizi, c’è una voce che si staglia fuori dal coro. Questa “voce”, pur dichiarando chiaramente inaccettabile l’attuale condizione di mancanza di tutele specifiche, grida #moltopiùdicirinnà.

Di cosa si tratta esattamente? Cosa rivendica chi sottolinea l’importanza di volgere lo sguardo oltre i diritti – o presunti tali – ottenuti dall’unione civile?Lo abbiamo chiesto allo studioso di filosofia politica, teorie femministe equeer, Federico Zappino.

Le varie istituzioni europee chiedono in realtà da molto tempo, all’Italia, di dotarsi di strumenti di riconoscimento giuridico delle coppie composte da persone dello stesso sesso, come peraltro hanno fatto uno dopo l’altro i vari Stati membri, o estendendo l’accesso all’istituto del matrimonio civile, o istituendo strumenti alternativi al matrimonio. Da un tempo ancora più lungo il parlamento italiano discute proposte di legge in materia di unioni omosessuali, rimaste, com’è evidente, lettera morta. Fu l’Interparlamentare delle Donne comuniste, nel 1986, a inaugurare il dibattito, e possiamo dire che nel corso di questi trent’anni il “dibattito” non è cambiato di molto. Già nel 2006 si pensò di essere vicini a un pieno riconoscimento giuridico: Romano Prodi promise il matrimonio egualitario, in campagna elettorale, ma poi decise di assecondare l’ala cattolica e conservatrice della sua coalizione e del suo elettorato, anziché quella composta da gay, lesbiche, trans e, più in generale, quella progressista e laica, dunque smorzò in favore dell’unione civile, affossata tuttavia in parlamento.
Dalla prospettiva giuridica liberal-democratica – e la nostra, ci piaccia o meno, è una liberal-democrazia – la mancata estensione dell’accesso all’istituto del matrimonio alle coppie non eterosessuali da parte dello Stato è una discriminazione non giustificabile se non facendo ricorso ad argomentazioni apertamente omo-lesbo-trans-fobiche e sessiste, come infatti accade. Argomentazioni che, tuttavia, siamo ormai perfettamente in grado di decifrare. È una discriminazione sia dal punto di vista della libertà (la libertà di sposarsi con chi si vuole) sia dal punto di vista dell’eguaglianza, rispetto alle coppie eterosessuali. Eguaglianza non solo di tipo formale, ma anche di tipo sostanziale.

Giovedì 21 gennaio scorso eri a Parma a presentare l’edizione italiana dell’opera di Judith Butler Undoing gender (Fare e disfare il genere, Mimesis, 2014), assieme ai ragazzi del progetto GeneRiot. In quella sede hai giustamente sottolineato il fatto che un individuo con ingenti possibilità economiche attualmente può già ottenere (leggi: acquisire) delle garanzie, anche se non legalmente riconosciute. Qual è la differenza tra “chi può già” e “chi non può ancora”? 

È molto raro che ciò venga detto, ma per quanto mi riguarda credo chequesto diritto dovrebbe essere riconosciuto anche e soprattutto per motivi di classe: le coppie gay e lesbiche più povere sono doppiamente discriminate, rispetto a quelle più abbienti, in quanto alla discriminazione formale si somma quella sostanziale derivante dal fatto che alcune questioni di primo piano, come la proprietà o le successioni, devono essere regolate per vie privatistiche, e ciò comporta oneri e costi che ricadono interamente su singoli doppiamente vulnerabili. Dal punto di vista giuridico, insomma, c’è poco da discutere, per ragioni indipendenti.
Tale discriminazione giuridica potrebbe essere emendata solo dall’universalizzazione del matrimonio. Deve essere chiaro, infatti, che là dove si introducano strumenti alternativi ad esso, quali che siano gli appellativi e le peculiarità – patto civile di solidarietà (PACS), unione civile, formazione sociale specifica, unione domestica registrata e così via – è in gioco la non volontà di scardinare il privilegio della coppia eterosessuale unita in matrimonio, con tutto ciò che tale privilegio comporta non solo sul piano economico e legale, ma anche sul piano simbolico, dell’immaginario e del più vasto ordine sociale. Non bisogna sottovalutare, in ogni caso, che lo strumento alternativo può prevedere alcuni vantaggi, come ad esempio la maggior snellezza delle procedure in caso di scioglimento della relazione, che invece le coppie unite in matrimonio devono affrontare attraverso l’iter della separazione e del divorzio.

Se tutto ciò fa parte di considerazioni di ordine giuridico, e dunque di doveri dello Stato nei confronti dei cittadini, da una prospettiva politica resto dell’idea che lottare per il riconoscimento legale, che sia attraverso il matrimonio o attraverso l’unione civile, significhi confermare e perpetuare il privilegio della concezione eteronormativa della coppia – etero o omosessuale – rispetto ad altre forme di unione, non necessariamente diadiche, che siano di tipo affettivo, amoroso, sessuale, amicale, di sostegno reciproco o di parentela. Significa, inoltre, perpetuare l’assunto in base al quale molti altri diritti (quelli già citati in materia di proprietà e successioni, ma anche quelli in materia di adozione e di accesso alle tecniche di procreazione assistita) possano essere accordati solo attraverso il riconoscimento formale di una coppia. Significa, in altre parole, perpetuare una gerarchia tra le forme di unione che possono ambire alla riconoscibilità e quelle che, sprovviste dei requisiti necessari, sono condannate all’illeggibilità. Ma significa anche far passare in secondo piano i contenuti decisamente più ampi dei movimenti gay, lesbici, trans e queer, come ad esempio il diritto al reddito, alla casa, al welfare, in assenza dei quali è davvero difficile pensare a forme di affettività, di sessualità, di famiglia, di genitorialità che siano libere e autodeterminate.

IMG_20160123_172216

Piazza della Scala 23 gennio 2016 #svegliaitalia

Queste, e molte altre, sono le obiezioni che alcuni collettivi transfemministi e queer, come il Lab Smaschieramenti e la Favolosa Coalizione di Bologna, o le Ambrosia di Milano, hanno portato nelle affollate piazze di ieri. E queste sono le obiezioni, minoritarie e radicali, alle quali occorre prestare ascolto, non certo quelle dei fascisti o dei cattolici.

Da un lato il modello proposto rimane dunque “eteronormativo”, dall’altro la totale mancanza di tutele attuale è una condizione insostenibile: come si risolve questo cortocircuito? 

Non sono sicuro di avere una soluzione. Penso che si possano portare avanti entrambe le istanze, sia quella del riconoscimento giuridico di unioni che già esistono nella nostra società e che si trovano ad affrontare problemi materiali derivanti dal mancato riconoscimento, sia quella della trasformazione degli assetti eteronormativi della società.
Ciò sarebbe indubbiamente più semplice se si smettesse di considerare la prima istanza come l’unica possibile, mentre la seconda alla stregua di qualcosa di utopico, di secondario o, più verosimilmente, di ridicolo.Riportiamo al centro del discorso il fatto che ogni giorno, in moltissimi modi, consci e inconsci, educhiamo bambine e bambini ai generi distinti ed eterosessuali, e che ciò preclude fin da principio una quantità infinita di altre possibilità di esistenza e di relazione, oltre il “due” della coppia, che poi è il “due” della differenza sessuale da cui tutto continua a dipendere. Capiamo che c’è una distinzione abissale tra la lotta all’omo-lesbo-trans-fobia e la critica dell’eteronormatività. Insistiamo sul fatto che non si tratta solo di capire cosa fare delle persone e delle coppie non eterosessuali o come prevenire o lenire la violenza – simbolica e materiale – nei loro confronti, ma che si tratta di capire che l’eterosessualità è una forma di vita e di relazione egemonica ed è imperiosamente riprodotta, e che è esattamente in ciò che consiste il nostro problema. Le assicuro che siamo davvero in poch* a crederci.

In una lotta per l’uguaglianza che passa attraverso il riconoscimento statale dei diritti, quali sono i rischi di strumentalizzazione del concetto di amore? 

Chiedere eguali diritti significa lottare per l’eguaglianza di fronte alla legge. Il motivo per il quale si lotta per questa eguaglianza può essere l’amore che si prova nei confronti della propria compagna o del proprio compagno, tra gli altri, ed è senz’altro uno dei motivi più forti. Penso anche, però, che occorra contrastare nel modo più fermo quelle strumentalizzazioni del concetto di “amore” specialmente quando ciò significa stabilire quali amori contino e quali no o, addirittura, quali siano “veri” amori e quali no. Si pensi ad esempio alla formula Un paese civile protegge l’amore, impiegata dall’Arcigay per la campagna #SvegliatItalia. O si pensi allo slogan Love Wins, usato dall’amministrazione statunitense in occasione del riconoscimento del matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti, o allo slogan Equal Love, usato invece dal governo australiano. Mi verrebbe da domandare: l’amore che conta e che “vince” è dunque quello riconosciuto dallo Stato? Quali requisiti occorrono per essere “protetti” dal “paese civile”? Si tratta di quello stesso “paese civile” che già protegge il familismo, l’omo-lesbo-trans-fobia e il razzismo? Si tratta di quella stessa “civiltà” che Libera Voler, in un articolo lucido e politicamente centrato, ci ricorda essere «una parola d’ordine attraverso la quale le retoriche dei diritti sessuali servono a costruire l’immagine di una nazione progressista e moralmente superiore rispetto a stati con leggi e legislazioni diverse e discriminatorie nei confronti delle persone LGBT»?
Tali strumentalizzazioni dell’amore sono ovviamente forme dipinkwashing, e dovrebbero essere rigettate, anziché abbracciate con estrema devozione, da chiunque abbia un po’ di coscienza critica. Non bisogna sottovalutare, infatti, la loro efficacia nel lavorare al servizio di un’unica egemonica concezione dell’amore, invisibilizzando tutte quelle forme di amore che emergono ai bordi dell’intelligibilità, tutte quelle forme di amore che emergono in seno a una rottura di ogni orizzonte normativo, innanzitutto di genere, di orientamento sessuale, di abilità corporea.
Lottare per il riconoscimento giuridico della coppia non necessariamente significa lottare per l’amore. L’amore è una questione politica, non giuridica, forse la più politica delle questioni possibili.Lottare per la trasformazione delle cornici di intelligibilità dell’amore, piuttosto, fa un tutt’uno con la lotta contro l’eteronormatività.

da: http://thebottomup.it/2016/01/24/amore-politica-intervista-federico-zappino-unioni-civili/

 

I commenti sono stati disattivati.