Anche questa è cultura dello stupro


Vogliamo Essere Libere, non Coraggiose 

 

La nostra estate come il nostro autunno sono state segnate da violenze di genere e femminicidi, ma sappiamo che non è un problema di questo momento. Sappiamo che c’è un sommerso di violenza che non arriva sulle pagine dei quotidiani e alla denuncia. E conosciamo tutta la violenza che viene agita sulla persone trans, sulle persone razzializzate, sulle persone che esercitano il sex work.

La violenza sulle donne non è un’emergenza, è tradizione: è il massacro del Circeo, è Franca Viola, è Tiziana Cantone. La violenza sui nostri corpi è costante, pervasiva, fondativa delle città, dei posti di lavoro, dei tribunali, della società, degli spazi online e dello stato in cui viviamo.

E mentre si consuma questa quotidiana reiterazione della violenza dobbiamo anche assistere alla retorica del “not all men”. A questo slogan vogliamo dare due risposte:
– se “not all men” agiscono violenza, sono comunque abbastanza da farci sentire minacciate e in pericolo in tutti gli spazi,e questo è un problema;
– se “not all men”, allora la frase possiamo completarla anche in altri modi: “…non tutti gli uomini si oppongono alla violenza sulle donne e di genere”, “…non tutti gli uomini decostruiscono la loro mascolinità egemonica”, “…non tutti gli uomini fanno notare agli altri gli atteggiamenti sessisti e di branco quotidianamente esibiti a casa, al lavoro e nelle chat”.

“Not all men”, ma a Palermo 7 stupratori e, in poche ore, più di 2200 a cercare il video. E anche questa è cultura dello stupro! Una chat di lavoro con 80 maschi che commentano tutti i corpi che passano, altri branchi, altri femmicidi, altri stupratori. Origine, età e appartenenza di classe tutte diverse, eppure qualcosa li accomuna: il genere e l’asimmetria di potere a cui è associato.

Siamo piene di rabbia e, come sempre, la  prima domanda che ci poniamo è: cosa ne facciamo della nostra rabbia? Cosa ne facciamo di questo sentimento, generato dall’oppressione e della violenza, che ci muove ogni giorno in tutti gli spazi, dalla strada, al lavoro, alla casa? Come troviamo il modo di evitare la strumentalizzazione della violenza sui nostri corpi in nome di una società del controllo e della limitazione della nostra volontà? Come strasformiamo la nostra rabbia in un motore di cambiamento e di rivoluzione per costruire un mondo attraversabile per i nostri corpi?

Abbiamo deciso di affrontare il tema della violenza di genere mostrandone i pilastri dell’oppressione: cos’è e cosa alimenta la cultura dello stupro, l’asimmetria di potere su cui è fondata la violenza, la vittimizzazione secondaria e la legittimazione della violenza sulle donne da parte dello Stato.
Tanto furiose quanto organizzate.

La “cultura dello stupro” è il retroterra culturale in base al quale la prevaricazione è percepita come sexy e si costituisce l’idea che l’uomo sia strutturalmente un predatore e la donna una preda sessuale.
La cultura dello stupro è alimentata attraverso tutti quei comportamenti quotidiani, talvolta anche inconsapevoli o agiti senza una diretta intenzione violenta, che alimentano l’asimmetria di potere che legittima e giustifica violenza e prevaricazione.
Così viene nutrita la lucida consapevolezza maschile di poter agire violenza, la profonda convinzione di poter disporre dei corpi delle donne e dei corpi subalterni perché visti in un’ottica di possesso e inferiorità, l’affermazione machista nella violazione del consenso.
Talvolta anche con le migliori intenzioni, le parole o le immagini della violenza vengono usate e veicolate con fini di sensibilizzazzione, come se mostrare tutti i dettagli più violenti e denigranti rendesse l’evidenza di uno stupro effettivamente tale.
La violenza, lo stupro, fino al femminicidio, sono tali in quanto agiti contro una donna o un soggetto femminilizzato, considerat* da chi agisce questa violenza a propria disposizione. Per far comprendere la violenza quindi non abbiamo bisogno di metterne in evidenza gli aspetti più crudi, quanto piuttosto abbiamo la necessità di smascherarne i mecccanismi di potere e legittimazione che la sostengono.
L’esposizione delle immagini, delle parole aggressive e denigranti contribuisce alla narrazione del mostro, del lupo cattivo e ad essere esposta è sempre colei che subisce la violenza.
E anche questo alimenta la cultura dello stupro!

Ci chiediamo allora da cosa derivi questo sguardo distorto. Perché su di noi si abbattono paternalismo, infantilizzazione, violenza fisica, violenza psicologica, molestie, catcalling (così detta “violenza di strada”, commenti indesiderati, fischi, allusioni sessuali, ecc.), violenza online (detta impropriamente “revenge porn”, ossia condivisione di materiale intimo senza il consenso della persona, con il fine di nuocerle), gaslighting (forma di violenza psicologica manipolatoria che induce la persona che la subisce a dubitare di se stessa) e stalking (comportamneti continui e molesti con il fine di perseguitare una persona)?
Perché queste figure maschili, appartenenti alla famiglia o alla sfera delle relazioni, si sentono in diritto di agire tutto questo?
Perché la società in cui viviamo, dà loro perennemente alibi e giustificazioni, confermando la possibilità di poter continuare ad agire violenza e prevaricazione. Dai giornali, al governo, ai tribunali.
Ripudiamo il concetto di “mostro” o di “lupo”. Il violento, lo stupratore, il femminicida non sono malati, sono figli sani del patriarcato, come gridiamo consapevolmente dalle piazze.

Certo anche gli uomini che agiscono violenza sono sommersi come noi da una informazione distorta, sommersi da “basta non ubriacarsi”, “era geloso”, “è stato illuso”, “il tik tok in abiti provocanti”, “lei aveva bevuto”, “ha avuto un raptus”. Ma la differenza tra ciò che ne facciamo noi e ciò che ne fanno loro di queste narrazioni è abissale. Noi leggiamo le narrazioni tossiche sui nostri corpi e ne siamo furiose e inorridite. Loro invece le usano come un lascia passare, un lascia passare sostenuto da un governo che non condanna la violenza sulla donne e da una società che la giustifica.

Quando una donna subisce uno stupro si mette in moto il processo di vittimizzazione secondaria, nei tribunali come sui giornali e in TV.

Nei tribunali veniamo infantilizzate quando ci viene detto che non capiamo la differenza tra uno scherzo e una molestia, tra un complimento e il catcalling. Al tempo stesso però c’è un altro sguardo nei confronti del femminicida, la ricerca costante della giustificazione (più che del movente), i raptus e la gelosia che darebbero “un senso” alla violenza e al femminicidio. La ricostruzione della sua vita stranamente non cerca conferme di un agire violento, quanto piuttosto degli aspetti umani che rilegherebbero l’atto violento a una eccezione (anche se poi queste eccezioni sono quotidiane).

Ed è in questo modo che viene agita la vittimizzazione di chi subisce violenza, attraverso un’esposizione intima e continua dai tribunali ai mezzi di comunicazione. L’esposizione di quella violenza e il racconto dei dettagli più brutali e morbosi mettono il corpo (e non solo) delle donne alla mercè di chiunque quella violenza subita (una volta) legga, narri e giudichi più e più volte, riproducendola e riproducendone le ferite.

E dall’altro lato questi uomini che agiscono violenza cosa vedono? Vedono uno stato e una società che odia le donne e le opprime, che alimenta il giudizio e la colpevolizzazione nei loro confronti: metà della popolazione che opprime l’altra avendo tutti gli alibi a disposizione. Spaventare le donne per irrigimentarle. La società che continua a dire a noi di non bere, di non indossare minigonne, di non uscire tardi, di non drogarci è la stessa che non dice mai a loro di non stuprare.

E noi sappiamo che non sono i vestiti, non è l’alcool, non sono le due di notte ma sono questi uomini a stuprarci e a ucciderci. Per quanto i movimenti transfemministi e femministi continuino a ricondare che “no vuol dire no”, che il consenso sia fondamentale, questo sembra non interessare. Lo stupro non ha nulla a che vedere con la sfera del sesso, si tratta di esercizio di potere e sopraffazione.

E a livello governativo cosa succede?
Un governo che odia le donne non può che generare una popolazione maschile che odia le donne.
Giambruno, chiaro megafono delle convinzioni del (maschile voluto) presidente del consiglio, messo appositamente per occuparsi della propaganda di partito, dichiara (la sera del 28 agosto nella trasmissione Tg4 diario del giorno) che “Se eviti di ubriacarti, non incontri il lupo.”
Piantedosi, ministro degli interni, invece dichiara che è compito della scuola educare contro la violenza. E allora dov’è l’educazione sessuale non eteronormata, al consenso e al piacere nelle scuole che tantissimi movimenti femministi chiedono, tra cui il movimento politico transfemminista Non Una Di Meno?

Si tratta di un governo complice e che giustifica questa violenza, che come soluzione parla, tramite Roccella, ministra per le pari opportunità e la famiglia, di vietare il porno ai minorenni. (Su questo rimandiamo a un brillante pezzo di Slavina scritto per il manifesto https://ilmanifesto.it/non-lasciamo-il-porno-ai-maschilisti)

Si tratta di un governo che invece di realizzare manovre per implementare il welfare, sempre più inesistente in Italia, offre come unica soluzione quella carceraria.
Il nostro femminismo è profondamente anticarcerario, le carceri servono solo a riprodurre violenza e oppressione, non vi è rieducazione, solo sovraffollamento e dimenticanza da parte della società.

L’alternativa alla violenza (e alle carceri) è costruire città transfemministe, realizzare uno stato di welfare, in cui davvero ci sia un diritto all’abitare, un reddito universale, di base e inclusivo, scuola e sanità pubbliche finanziate, consultori in ogni quartiere, personale medico nelle strutture scolastiche, educazione sessuale non eteronormata, al consenso e al piacere nelle scuole. Ci servono fondi per le case rifugio e per i centri antiviolenza laici e femministi. Ci servono città attraversabili da tutte le persone senza barriere abiliste. Abbiamo bisogno che la chiesa sia fuori dalla politica di stato e dalla sanità.
Non solo queste città le vogliamo, ma ci servono per poter essere libere di attraversare le strade a tutte le ore del giorno e della notte.

 

Se domani sono io, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.
Si mañana soy yo, si mañana no vuelvo, destruyelo todo. Si mañana me toca, quiero ser la ùltima.

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