Ci vogliamo libere e sicure


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo stanche. Nel corso del tempo abbiamo raccolto diverse e varie testimonianze di situazioni di violenza nei luoghi politici che abbiamo attraversato o attraversiamo. Testimonianze che hanno avuto esiti diversi, anche a partire dalle esigenze e le richieste dellu sopravviventi. Siamo grate a tuttu coloro che ci hanno interpellate, che ci hanno dato la loro fiducia e che hanno riconosciuto in Ambrosia uno spazio politico che potesse accogliere le loro parole e immaginare azioni comuni. Però non possiamo negare che ogni volta ascoltare voglia dire rimetterci in discussione, ritornare su ricordi e situazioni vissute, ritrovare la rabbia che continuiamo a provare. E per questo vogliamo usare tutta questa rabbia collettivamente, perché “se toccano una toccano tutte” significa anche farci carico di quanto anche noi ci sentiamo toccate.

 

Riteniamo che sia responsabilità di tuttu affrontare le situazioni di violenza che intercorrono negli spazi di movimento e coinvolgono le persone che li attraversano, con la consapevolezza che la violenza di genere pervade ogni ambito delle nostre vite e che nessunu può dirsi immune dal sessismo.
Le testimonianze da parte delle soggettività che si riconoscono donne e delle persone che subiscono violenza di genere nell’ambito degli spazi di movimento sono sempre più frequenti. Non perché siano aumentati gli abusi, no. Quelli ci sono sempre stati e li abbiamo subìti. Bensì perchè sono aumentati i racconti che lu sopravviventi decidono di condividere.  Grazie allu compagnu che si sentono nella condizione di farli emergere e chiedere aiuto nelle diverse modalità in cui si trovano più sicuru. Questa forza e questo coraggio richiedono un ascolto (perché “Sorella io ti credo” non è soltanto uno slogan) e una risposta che sempre e necessariamente parte dal sentire della persona sopravvivente.
Sappiamo che ogni storia è diversa e che non esistono schemi applicabili in ogni situazione, ma sul fronte della solidarietà attiva alle persone che subiscono violenza speriamo di aver maturato collettivamente esperienze che oltre ad essere condivise possono diventare sempre di più un terreno comune di crescita – anche e soprattutto grazie allo scambio e al supporto dei Centri Anti-Violenza femministi.

 

Però restano molte questioni aperte che le realtà di movimento faticano (nella migliore delle ipotesi) ad affrontare:
  • Come rendere uno spazio politico (fisico e non solo) sicuro per lu sopravvivente?
  • Cosa fare e cosa NON fare per supportare la persona sopravvivente ascoltando le sue richieste?
  • Come comportarsi (soggettivamente e collettivamente) con la persona maltrattante?
  • Come assumere collettivamente la responsabilità del contesto culturale e politico in cui la violenza è maturata ed è stata agìta?
  • Come costruire un percorso collettivo di riflessione e messa in discussione sul tema della violenza di genere? 
  • Tra le difficoltà maggiori che spesso incontriamo facendo questi percorsi c’è l’incapacità di riconoscere la violenza, soprattutto quando le persone e le situazioni coinvolte non corrispondono a delle persone o situazioni ideali. 
Se è inaccettabile considerare abbigliamento e comportamento come fattori di responsabilità a carico della persona che subisce violenza, altrettanto dovrebbero esserlo le sue condizioni sociali, economiche, psicologiche, di salute o personali di qualsiasi tipo.
Specularmente, dovremmo essere in grado di riconoscere come maltrattante una persona indipendentemente dalle fragilità, condizioni e dal contesto.
Pur nella legittimità di lasciare il proprio spazio di riflessione a ciascuna realtà, riteniamo che questo rischi di diventare un modo per delegare e relegare il problema ad “altru” esattamente come quando le violenze accadono in famiglia e chi sta intorno si aspetta che al suo interno si “risolvano i problemi”. 
Oppure in altre situazioni, laddove non viene espressa una volontà sostanziale di messa in discussione, la sola presa di distanza non ci sembra più sufficiente, ancora come se il problema riguardasse altru.

 

Negli anni abbiamo provato molte strade: abbiamo avviato percorsi interni agli spazi misti e di politica generalista nel tentativo di contaminare pratiche e pensiero, siamo uscite dagli spazi e dalle reti di movimento che a nostro avviso aveva evitato di affrontare episodi di violenza, abbiamo continuato con tutte le realtà sorelle a costruire percorsi di auto-formazione, dibattiti, laboratori sul tema della violenza e dei rapporti di potere tra i generi, abbiamo contribuito a costruire movimenti e reti transfemministe – e molte altre ne stiamo cercando, perché non consideriamo il nostro percorso concluso e perché solo insieme alle altre possiamo renderci davvero libere.

 

Per questo riteniamo che sia necessaria una presa di responsabilità collettiva, che ci veda insieme a riconoscere il contesto culturale e sociale che consente – nei differenti ambiti del movimento – il perpetuarsi delle dinamiche violente e che ci veda insieme ad interrogarci al fine di costruire percorsi di critica e gestione della violenza.

 

Non possiamo accettare che nelle nostre piazze, e nei nostri spazi siano tollerati comportamenti di violenza e maltrattamento, perché il senso di sicurezza passa anche da questo, che noi tuttu non possiamo sentirci a nostro agio nell’attraversarli e che troppo spesso l’unica soluzione di autotutela è allontanarsi.
Nessuna critica al sistema capitalista, al razzismo, al sistema politico nazionale ed internazionale, allo sfruttamento ambientale e animale può essere davvero discussa e praticata se non include una critica all’eterosessismo e al patriarcato (e alle dinamiche che sostiene e riproduce in ogni ambito della nostra vita).

 

La rivoluzione (o anche la sua aspirazione e costruzione) o è transfemminista o non lo è.
Per questo insieme a tutte le persone, soggettività e collettività alleate (che come noi non ne possono più) vorremmo aprire a settembre uno spazio di riflessione per costruire pratiche e strumenti di resistenza e trasformazione.

 

Nota al testo: Ci sono più strumenti e caratteri che vengono utilizzati per opporsi al maschile universale: “*”, “u”, “@”, “ə”…
Abbiamo operato una scelta utilizzando la “u” come desinenza per ragioni che vogliamo rendere trasparenti e allo stesso tempo non impositive per altri percorsi.
La “u” è uno strumento che è nato in ambito femminista e trasfemminista e in percorsi collettivi, a differenza per esempio della “ə” che rappresenta meno un processo collettivo dal basso. Inoltre l’utilizzo della “u”, è una scelta antiabilista perché permette di far processare e verbalizzare il testo in modo più agevole e comprensibile anche a strumenti automatizzati di Text To Speech.

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