PRESENTAZIONE di FARE E DISFARE IL GENERE di Judith Butler – 7 marzo, Piano Terra h 19:30


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Ne parlano: Ambrosia, Olivia Fiorilli, Chiara Martucci, Cristina Morini e Stefania Prandi. Sarà presente il curatore Federico Zappino

 

La recente riedizione di Fare e disfare il genere di Judith Butler (a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia Guaraldo, Mimesis 2014) sancisce l’importanza di questo testo all’interno del vasto campo degli studi critici femministi e queer. Identità di genere, eteronormatività, corporeità, parentela, unioni tra persone dello stesso sesso – e ancora trasformazione sociale, riconoscimento, interdipendenza, desiderio e autodeterminazione, sono tutti i fili che vanno a comporre la riflessione più matura, e vibrante, di Judith Butler sui temi che nei primi anni Novanta furono al centro del fondamentale, e tuttora discusso, Gender Trouble.

L’insistenza sulla processualità del fare e del disfare, individuale e collettiva, consente in questo testo di cogliere in essa i tratti di una riconfigurazione costante dei parametri di intelligibilità del soggetto che il genere, incessantemente, produce. Come ogni classico del pensiero, tuttavia, Fare e disfare il genere offre paradigmi e strumenti concettuali, e decostruttivi, che si rivelano utili anche per affrontare temi e problemi che il libro, formalmente, non pone. Il testo, come ha notato Anna Simone (Alfabeta2), ci dice infatti «che l’agency dei soggetti è sempre lacerata da un paradosso, ragion per cui è esso stesso l’unica condizione di possibilità; ci dice che l’uso del concetto lacaniano di forclusione risulta fecondo anche per fare e disfare il femminismo; ci dice che uno dei problemi del pensiero della differenza sessuale è la difficoltà a stabilire connessioni con i grandi mutamenti di scala del pensiero e della realtà sociale; ci dice, a suo modo, che per superare questo gap bisognerebbe ripensare l’umano senza tornare all’umanesimo». Ma Fare e disfare il genere, se «produttivamente tradito», come ha proposto Olivia Fiorilli (Commonware), è in grado di parlare non solo ai movimenti queer e transfemministi, ma anche «a tutti i movimenti sociali che combattono le politiche predatorie del neoliberismo nella sua fase attuale e che nella riflessione queer e femminista possono trovare una lente di lettura irrinunciabile». L’idea di una soggettività costantemente espropriata, spossessata, dai processi, dalle relazioni, dagli ordini discorsivi che fanno e disfano il genere (ossia: che fanno e disfano i parametri di intelligibilità del suo riconoscimento, della sua inclusione, della sua buona vita) rappresenta infatti una leva fondamentale contro la ragione neoliberista che fonda la propria ontologia sul soggetto sovrano e proprietario: «per Butler il soggetto non è sovrano né tantomeno proprietario: semmai non “possiede” pienamente neppure se stesso, il “proprio” genere, la “propria” sessualità. Il soggetto è anzi non solo fondamentalmente vulnerabile all’altro, ma anche costitutivamente dipendente». E dunque, questo testo «può essere utile anche per individuare strumenti critici da mettere in campo nel conflitto dentro e contro il lavoro in fase di ristrutturazione. Fare e disfare il genere affronta insistentemente e da varie prospettive il problema del riconoscimento come luogo di potere attraverso il quale l’essere umano viene prodotto in maniera differenziale». La «promessa di riconoscimento – del proprio valore, del proprio merito, della propria “utilità”, ma anche del proprio genere, della propria soggettività e più in generale del proprio essere soggetti sociali “degni” e possibili – diventa infatti sempre più la contropartita del lavoro: si tratta di un dispositivo perverso di estrazione di valore e al contempo di cattura delle soggettività».

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Questo «tradimento produttivo», questa feconda riattualizzazione politica del classico di Judith Butler, inaugurata dalla postfazione di Federico Zappino (Il genere, luogo precario), si rivela dunque «tanto più importante e proficua, se si considera che in questa parte di mondo, l’occidente del capitalismo avanzato, sono proprio le differenze a funzionare come dispositivi di segmentazione, d’inclusione/esclusione», e in cui il biocapitalismo cognitivo e relazionale «opera tatticamente tagliando e cucendo proprio le nostre differenze in precisi meccanismi di eteronormazione e controllo», come hanno osservato Raffaella Lamberti e Angela Balzano (il lavoro culturale), ben dimostrato dalle strategie di diversity management e dalle campagne di pinkwashing. «Lo scopo politico che attraversa tutto il testo è quello rivendicare fino in fondo il diritto alla vivibilità», ha messo in risalto Cristina Morini (Quaderni di San Precario): «la long and winding road del femminismo conta anche su tali preziose ripetizioni e rinsanguamenti. E questa Butler è quella meno dolente, quella più politica, […] quella che ci corrisponde di più. Quella che scrive, nel capitolo “La questione della trasformazione sociale”: Il fatto che il femminismo si sia sempre interrogato sulla vita e sulla morte rivela la sua natura filosofica. Che si ponga delle domande sul nostro modo di organizzare la vita, il valore che le conferiamo, sulla maniera di preservarla dalla violenza e di condurre il mondo e le sue istituzioni verso nuovi valori significa che i suoi sforzi filosofici formano, in un certo senso, un tutt’uno con l’obiettivo della trasformazione sociale».

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Ne discuteremo insieme il 7 marzo alle 19.30 a PianoTerra, in via Confalonieri 3, http://www.pianoterralab.org/

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